Agromafie, in Italia è un business

“Il termine agromafie è riduttivo, così come lo è quello di ecomafie: anche la criminalità agroalimentare è una criminalità di impresa che si serve dei servizi della mafie” ha spiegato lo scorso 14 marzo Franco Roberti, il Procuratore Nazionale.

Un intervento tenutosi in occasione della conferenza di presentazione del rapporto Coldiretti-Eurispes a proposito delle agromafie e dei crimini alimentari nel nostro paese. 

L‘Italia ha combattuto reati come l’associazione mafiosa attraverso l’art 416 bis ma attualmente riscontra un vuoto legislativo che non rende possibile un’ effettiva repressione dei reati di contraffazione.
Oggi il nostro paese si limita a sanzionare solamente quelli di tipo contravvenzionale. A tal proposito quella che si è richiesta in occasione della conferenza è stata un’armonizzazione legislativa a livello europeo (come tra l’altro è avvenuto più volte per i reati contro l’ambiente).

Sarebbe proprio la carenza legislativa a spiegare il forte innalzamento dei crimini legati alle agromafie. Del resto si parla di un giro d’affari che solo quest’anno si è incrementato del 30% generando un ammontare complessivo pari a 21,8 miliardi di euro. 

“La criminalità investe denaro sporco dal campo alla tavola in attività strategiche, visto che, anche in tempo di crisi, di cibo non si può fare a meno. Si va dai furti di bestiame e attrezzature nelle campagne, al caporalato e allo sfruttamento di manodopera, al controllo dei sistemi di trasporto del prodotto agricolo, fino alla gestione di ristoranti e intere catene della distribuzione” ha spiegato Moncalvo, presidente di Coldiretti. 

Tra le pratiche ordinarie di questa “nuova criminalità” c’è il cosiddetto High frequency trading. Letteralmente significa “scambi commerciali ad alta frequenza”, si tratta di negoziazioni così repentine da essere capaci di condizionare i listini di mercato.

Un business  -quello delle agromafie- che non coinvolge solamente il Meridione. Ne sono la prova i prodotti di bassa qualità importati dall’estero, che vengono poi rilavorati e rimessi in vendita sul mercato italiano. Il primo capitolo del rapporto è dedicato proprio all’approfondimento della distribuzione territoriale delle agromafie e del relativo riciclaggio di denaro sporco nel settore stesso.

Quello che si rileva è un quadro inquietante per il marchio “Made in Italy”: luoghi come Piacenza, Mantova, Ferrara e Rovigo registrano un alto indice di permeabilità criminale, come pure Cuneo,Vercelli, Alessandria, Lodi e Crema. 

“Ma ad oggi non è ancora possibile sapere quanto entra dalle nostre frontiere e quali sono le aziende che trasformano materie prime inquinate e le marcano come italiane, in modo fraudolento, usando anche prodotti chimici e additivi pericolosi per la salute dell’uomo” ha aggiunto il Presidente. 

Quanto alle condizioni lavorative degli operatori del settore, il caporalato
-purtroppo- non stenta ad estinguersi. E’ Latina la provincia in testa alla classifica, qui il fenomeno affligge 400mila lavoratori agricoli, di cui l’80% è straniero. 

In conclusione, quella che emerge è una forte necessità di trasparenza. Per garantirla occorre che vi siano un efficace coordinamento tra gli enti che vigilano e un altrettanto efficiente sistema di controllo.

“Dobbiamo agire sull’etichettatura e sulla certificazione certa dei prodotti e delle materie prime, ad oggi solo metà degli alimenti nel nostro carrello della spesa è davvero tracciato” ha concluso il Presidente Moncalvo.

Presente al convegno il ministro Maurizio Martina, il quale pure ha rimarcato l’importanza di continuare a garantire l’eccellenza del settore agroalimentare italiano.

Credits: Coldiretti, Eurispes

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