7 modi di dire tipicamente romani, per scoprire la Capitale in modo nuovo, attraverso la lingua.
Espressione della cultura e dell’anima della città, il romanesco ha un ampio patrimonio lessicale, arricchito da poeti come Giuseppe Gioacchino Belli e Trilussa, che riuscirono ad imporlo come lingua letteraria.
Turismo Roma propone 7 modi di dire romani, per schiettezza, ironia e fonte di ispirazione – tra luoghi, monumenti ed eventi passati alla storia, per scoprire la città in modo nuovo.
1. Il giro di Peppe
“Fare il giro di Peppe” significa sprecare il proprio tempo, allungando un tragitto, o un ragionamento, che potrebbe essere più breve. Questo proverbio si lega ad una delle meraviglie di Roma: il Pantheon, chiamato dai romani “la Rotonda” o “Ritonna”.
Legata forse in origine alla fuga in Egitto di Giuseppe e Maria, l’espressione fu ripresa a fine Ottocento, diventando in una delle sue versioni “Er giro de Peppe attorno alla Ritonna appresso alla Reale”.
Siamo nel 1878; Vittorio Emanuele II è appena morto e il corteo funebre che accompagna il feretro (la Reale) compie, come da tradizione, due giri intorno al Pantheon in forma di estremo saluto al re. Mentre tutte le autorità attendono all’ingresso del monumento, dove il re sarà poi seppellito, un Giuseppe Garibaldi (Peppe) forse distratto o ignaro delle consuetudini segue il corteo nel lungo percorso, facendo quel giro in più passato proverbialmente alla “storia”.
2. La lupa del Campidoglio
“Me pari la lupa del Campidojo”. Così i romani si rivolgono ad un’anima inquieta, che non trova pace e non riesce a stare ferma.
Emblema della città fin dal suo arrivo in Campidoglio nel 1471, donata da papa Sisto IV insieme alle altre magnifiche sculture che sarebbero diventate il primo nucleo dei Musei Capitolini, la lupa capitolina è, tra tutti i simboli di Roma, quello più forte e riconoscibile.
All’origine del modo di dire c’è però una lupa in carne e ossa e una triste usanza iniziata a fine Ottocento: nel 1872, a due anni dalla Breccia di Porta Pia, l’allora sindaco di Roma fece collocare alle pendici del Campidoglio una gabbia con un esemplare di lupo, che diventò presto un’attrattiva per i romani. L’esibizione del povero animale andò avanti molto a lungo e la lupa continuò per decenni ad abitare sul colle, percorrendo la stretta gabbia avanti e indietro. I romani eternarono quel movimento infinito nel famoso detto.
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3. Le messe a San Gregorio
Sull’omonima piazza alle pendici del Celio, la chiesa di San Gregorio è un esempio del Seicento romano. Ma la sua storia inizia prima, quando Gregorio – eletto poi papa nel 590 d.C. e passato alla storia come Gregorio Magno – trasforma la sua casa di famiglia in un monastero in seguito a una sofferta conversione.
In fondo alla navata destra della chiesa si conserva ancora oggi il cosiddetto “lettuccio”, un piccolo ambiente dove san Gregorio era solito riposare disteso su una pietra. Ma tra le particolarità della chiesa, veneratissima dai romani per la sua importanza e antichità, ce ne sarebbe anche un’altra, all’origine del proverbio.
In età remota fu infatti concesso alla chiesa di celebrare messa un’ora dopo mezzogiorno, offrendo anche ai ritardatari la possibilità di assistere alla funzione ecclesiastica. Il modo di dire si rifà alla fine di questa consuetudine: quando la pacchia è finita e non c’è altro da fare, i romani reagiscono così: “So’ finite le messe a San Gregorio”.
4. Nonno in carriola
“E de tu’ nonno ‘n cariola!” è una forma rafforzativa di risposta o di accompagnamento alla più classica delle parolacce romane, dai molteplici significati a seconda del tono e dell’espressione di chi la pronuncia: rabbia e indignazione ma anche meraviglia, ammirazione e sorpresa. Ma che c’entra il nonno?
L’esclamazione risale a tempi lontani ed è collegata all’operato degli ospedali storici della città. Sulla riva sinistra del Tevere, a pochissimi passi dalla basilica di San Pietro, l’odierno complesso monumentale del Santo Spirito raccoglieva i malati in giro per la città fin dal 1200.
Ma quando i letti non bastavano, per esempio nel caso di un’epidemia, nell’enorme Aula Sistina dell’ospedale i malati in sovrannumero – spesso anziani – erano sistemati in condizioni precarie al centro della corsia, seduti su una specie di scomoda poltrona, una carriola o “cariola” in romanesco. La triste posizione del malato in “cariola” è visibile ancora oggi in una lapide presso la chiesa di Santa Maria Portae Paradisi, in via di Ripetta, proprio accanto a un altro storico ospedale, quello di San Giacomo degli Incurabili.
5. Per la Lungara
Il lungo rettifilo nel Rione Trastevere era nel Cinquecento quasi una città nella città, adorna di giardini e lussuose dimore, come la splendida Villa Farnesina. Un percorso antichissimo che dalla Porta Settimiana delle Mura Aureliane arrivava fino al Vaticano: trasformato in un vero asse urbano sotto papa Alessandro IV Borgia e sistemato definitivamente da Giulio II, in concomitanza con l’apertura di via Giulia sull’opposta riva del Tevere.
Il nome con cui la strada era conosciuta mutò però spesso nel corso dei secoli: da “Sub Jano”, perché dominata dal colle del Gianicolo, a “Via Sancta” per il traffico dei pellegrini e, per un certo periodo, anche a “Via Julia”.
Il nome definitivo di Lungara (o Longara) deriva dal latino altomedievale e indica una striscia di terra parallela a un corso d’acqua, più lunga che larga. Fu proprio la lunghezza della strada, e il disagio nel percorrerla, a colpire la fantasia popolare e a dare origine a uno dei tanti detti del dialetto romanesco. “Annà pe’ la Longara” significa essere costretti a imboccare, per carenza di mezzi, una strada lunga e scomoda per raggiungere il proprio scopo.
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6. Porta Cavalleggeri
L’antica Porta Turrionis, ribattezzata “Cavalleggeri” nel 1500, oggi non esiste più: era stata aperta lungo le Mura Leonine, alla sinistra del Colonnato di Piazza San Pietro e sul versante opposto rispetto a Porta Angelica e al Passetto di Borgo, ma fu abbattuta nel 1904 per ampliare la piazza del Sant’Uffizio.
Il proverbio fa riferimento a una data precisa: il fallito assalto francese del 30 aprile 1849.
Siamo nei giorni della Repubblica romana e Napoleone III invia a Roma un corpo di spedizione comandato dal generale Oudinot per espugnare la città e restituirla al papa. Oudinot è convinto di non incontrare resistenza e si dirige con le sue truppe verso la porta. Dopo un giorno di combattimenti, gli uomini agli ordini del colonnello Luigi Masi e le colonne mobili di Garibaldi e Galletti costringono però i francesi a una ritirata disordinata, che lascia sul campo più di 500 morti e 365 prigionieri. L’episodio diventò simbolo di presunzione e manie di grandezza. Da lì nacque il detto “Mettese in testa Porta Cavalleggeri”, ovvero desiderare l’impossibile.
7. Marc’Aurelio
L’ultimo dei modi di dire romani si collega alla figura dell’imperatore Marco Aurelio e, in particolare, alla statua di Marc’Aurelio a cavallo che Michelangelo fece sistemare al centro della piazza del Campidoglio.
L’originale in bronzo conserva qua e là tracce della doratura che la ricopriva, ma a Roma si credeva il contrario, cioè che la statua nascondesse un’ingente quantità d’oro che le intemperie avrebbero prima o poi riportato alla luce. Una fortuna, insomma, ma con un terribile rovescio della medaglia: secondo una diffusissima credenza, quando la statua fosse tornata tutta dorata, la “civetta” – il ciuffo di peli tra le orecchie del cavallo – avrebbe cantato annunciando la fine del mondo.
Dalla leggenda nacque il detto “Scoprì in oro come Marcurelio”, ovvero “essere inesorabilmente alla fine”. Tutt’altro significato ha invece un modo di dire all’apparenza simile: “Se sta scoprenno in oro come er cavallo de Marc’Urelio” che indica qualcuno che di punto in bianco si manifesta per quello che è.
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Fonte: Turismo Roma
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